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Massimo Orsini

Nasce nel 1967. Studia pittura all’Accademia di Belle Arti di Lecce e tecniche incisorie speri­mentali alla Scuola Internazio­nale di grafica di Venezia. Nel 1993 insegna tecniche dell’incisione all’Accademia di Belle Arti di Lecce. Dal 1992 al 1995 fa parte del gruppo di ricerca contemporanea La provincia artistica operante nel Salento. Dal 2001 insegna Anatomia Artistica ed Elementi di Morfologia all’Accademia di Belle Arti di Firenze, dove propone un nuovo programma di ricerca di natura semiotica e simbolica sul corpo in rela­zione all’opera dell’artista. 

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ESSERE o non.essere, nel cuore dell’arte

“Rispose loro Gesù: «In verità, in verità io vi dico: prima che Abramo fosse, Io Sono».” (Gv 8,58)

“L’errore più grande commesso dall’artista in questo secolo è quello di porre se stesso al di sopra dell’arte. E di conseguenza il sistema geopolitico globalizzato in cui viviamo attribuisce illecitamente all’arte una posizione secondaria, di asservimento al sistema. La funzione di essa è rappresentare il sistema e non guidare alla conoscenza interiore, aiutare l’anima a ripristinare il contatto con l’eterna Sapienza Spirituale e la conoscenza integrale del sé. La globalizzazione sarà promotrice di una falsa spiritualità che viene dal mondo... una spiritualità tecnica, meccanica e artefatta in contrasto con lo Spirito Santo che viene nel mondo. Ecco perché è necessario separare l’arte dal sistema globale perché l’arte ha già in se una strada che è via verità vita.” 1

L’interpretazione o meglio ermeneutica, guidando alla definizione di un evento in sé, genera quasi sempre confusione e allontana la mente e l’anima dalla realtà della vita. Non è tanto la natura e il metodo adottato dall’ermeneutica a cadere in questo stato di disordine, ma è l’ermeneutica in se stessa come dimensione a venir meno al suo stesso fine. Errato è il tentativo di convincere la mente di poter comprendere e circuire la natura degli esseri e degli eventi. Una comprensione che deriva da un uso liberamente arbitrario della volontà umana e definire tale volontà espressione diretta dell’intelligenza. Soprattutto quando l’interpretazione entra nella percezione del mondo visibile delle immagini gestite e controllate da un sistema virtuale-collettivo politico e sociale.

Vi è una grande differenza fra immagine, oggetto/cosa e definizione. Ma soprattutto vi è una grandissima differenza fra cosa e opera. La “cosa” interiormente ed esteriormente rimanda all’immagine generata dallo sguardo e così nel tempo tale sguardo diviene archetipo/modello costruito interamente dal pensiero umano e dalla sua realtà immanente.Tale immagine non è l’immagine (εἰκών) letta nella sua origine ma una traduzione postuma generata dal pensiero politico ed economico del “mondo”. La vera immagine, icona, ha una natura spirituale e ideale. “L’icona è identica alla visione celeste e non lo è, è la linea che contorna la visione. La visione non è l’icona: essa è reale in se stessa; l’icona, che coincide nel contorno con l’immagine spirituale, è per la nostra coscienza questa immagine, e fuori dell’immagine, senza di essa, a parte essa, in se stessa, astratta da essa non è né immagine, né icona, bensì una tavola.” 2 

Gino De Dominicis negli anni novanta, evidenzia il sorgere di un equivoco: “confondere la creazione con la creatività”. L’artista è un creatore, non è un creativo. In effetti credo che tale equivoco sia sorto molto tempo prima... deriva da una cattiva e superficiale lettura degli “esperimenti” (detti impropriamente ready-made) semplici, giocosi, intelligenti e oscillanti sul limite tanto invisibile quanto geniale della banalità di M. Duchamp che in effetti, da tutti i punti di vista avevano una natura e una qualità totalmente diversa dalle sue opere. La “funzione deviante dell’arte” la definisce Pierre Restany. Ma non è Duchamp a deviare dalla dimensione dell’arte, in lui questa differenza è netta e chiara, è la critica stanca e corrotta a dare alla luce questa nuova immagine di artista/creativo, creato a immagine e somiglianza del critico d’arte e trasformato di li a poco in “curatore”. Così tutta l’opera del grande artista di origine francese viene sintetizzata in modo a dir poco semplicistico in una sola parola, espressione diretta dell’equivoco in questione, una parola che non dice niente dicendo se stessa. Una parola che non riesce a spiegare niente perché non ha capito e non sa cosa spiegare: “decontestualizzazione”.

Tale “idea” cieca sembra concretizzarsi (quasi) magicamente nell’installazione “Una e tre sedie”di J. Kosuth del 1965 che si può in un certo senso considerare il manifesto del “movimento concettuale”. In questa scena K. presenta ed espone una sedia, la sua immagine fotografica e la definizione presente sul dizionario della parola “sedia” che in effetti essendo stampata, appare essa stessa come immagine. Un po’ di tempo prima (un bel po’!) Magritte attraverso la serie “L’inganno delle immagini” aveva svelato appunto che le immagini che oggi sostituiscono il volto delle cose, in realtà non sono le cose stesse. Kosuth invece rileggendo Dushamp e “ignorando”, almeno in apparenza, Magritte, ci dice che la sedia, la sua immagine e la sua definizione divengono insieme la stessa cosa e “avrebbero” un rapporto intrinseco fra loro.

Tutto questo, ovviamente è ripetibile inserendo nella scena qualsiasi oggetto/cosa, borsa, cappello, scarpa... Nessuno, e tanto più la critica d’arte sembra essersi accorto (almeno ufficialmente) che gli oggetti di uso comune sono prodotti legati sempre ad una funzione, sono cose funzionali. Il sistema dell’arte stesso ha dimenticato (oppure non lo ha mai saputo) che la creazione e di conseguenza l’arte, non produce cose. Esiste una differenza fra la nascita di un’opera e gli “oggetti” diventati di uso comune in ambito sociale e pubblico come una sedia, una borsa... che in un certo senso sono immagini collettive. La dimensione dell’arte che attinge linfa vitale dal mondo dello Spirito o dell’incompiuto, del potenziale, non fa riferimento alla realtà e soprattutto alla realtà ordinaria degli oggetti-archetipo che rientrano ormai nell’immaginario collettivo “popolare”. In effetti l’arte come la creazione non ha nella sua natura d’essere niente a che vedere con l’immaginario collettivo. Solo in un secondo momento rientrerà nel mondo delle immagini generando idee.

Ogni oggetto prodotto, a causa della funzione, che rappresenta un vincolo, un obbligo da assolvere, nasce sempre da un’immagine. L’idea! Potremmo anche dire che le cose comuni non sono altro che idee divenute immagini tridimensionali fatte di materia. La stessa materia “artificiale” se è solo fine a se stessa si può considerare in effetti un’immagine tridimensionale. L’arte non ha a che fare con le immagini del mondo ma solo con gli archetipi legati alla dimensione della Sapienza increata, in una dimensione potenziale e possibile dell’essere. L’arte non genera oggetti ma corpi, presenze, sguardi. Il non-artista-creativo oggi genera immagini tridimensionali, oggetti-cose che non servono a niente. La vera opera d’arte non nasce e non può nascere mai da un’idea precedente. Così ciò che oggi definiamo “immagine” è soltanto la pelle delle cose o meglio la superficie concettuale e virtuale che riveste un corpo, una forma... il contorno tridimensionale di ciò che riusciamo a percepire dal nostro limitato punto di vista tanto limitato quanto mobile e mutevole.

“Che cosa è veramente un’immagine? Una pelle troppo aderente a un corpo sconosciuto? Un ambito d’azione?, un adito pulsante di significati?, uno specchio riflesso e riflettente? Un luogo di sedimentazione della memoria?... Un subdolo e presuntuoso tentativo di porre un limite all’illimitato... è forse solo una definizione della cosa fuori dal sé? Parliamo del limite concettuale fra il cosiddetto spazio vuoto e la materia. Il tentativo assurdo di descrivere questo limite, raccontare, rappresentare l’irrapresentabile. Ed è proprio in questo luogo pericoloso che l’artista entra in punta di piedi camminando sul filo sottile di una lama con l’unico scopo di liberare la mente e lo sguardo da una veloce quanto prematura catalogazione controllata. Questa strana cecità del sistema usa le cose e i sensi, ne controlla l’ordine e la corrispondenza. È l’inimmaginabile errore del genio, l’abilità dell’artista a ripristinare attraverso un libero e silenzioso disordine, il senso autorevole della presenza. La presenza delle cose. L’immagine aderisce alla superficie con la stessa precarietà con la quale il vestito aderisce alla pelle. Subito sotto di essa incontriamo la nuda materia, il corpo. L’arte nasce al di sotto di questa, viene prima dei sensi e dei significati.” 3

1 Cfr. M.Orsini, Micro ospizio, MACRO, Museo d’arte contemporanea, Roma, 2019.

2 P. Florenskij, Le porte regali, Adelphi editore, Milano, 2002, p.59.

3 Cfr. M. Orsini, IMAGES-IN, Ninni Esposito arte contemporanea, Bari, 2015.

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