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Angelo D’Amato

Ha studiato all'Accademia di Belle arti di Napoli sotto la guida di Gaetano Sgambati, Giorgio Di Genova, Adachiara Zevi. Insegna arte presso la scuola secondaria ed è tra i fondatori della galleria d'arte contemporanea "Civico 23". Da alcuni anni è redattore di una rivista in scatola, contenente opere di artisti nazionali ed internazionali, nata dall'omonima galleria di Salerno. Ha partecipato a numerose iniziative su tutto il territorio nazionale. Ha collaborato a diversi progetti espositivi in partnerschip con la galleria A60 e con l'esposizione annuale "Stella in Arte" di Stella Cilento (SA). Scrive articoli per la rivista online "Il vortice" e, occasionalmente, con altre riviste d'arte contemporanea (Lobodilattice). Il suo lavoro è indirizzato verso una ricerca semiotica dei linguaggi nell'ambito dei Visual Culture Studies.

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Visibile e Visuale, Senso e non Senso

Il problema è rendere "il visibile" non "rendere visibile", operazione quest'ultima che tutti, intenzionalmente e indipendentemente da quello che vogliono rappresentare, possono fare. L'arte attuale è questa, affidare alla sensazione (intesa come aisthesis, sensazione, percezione, sentimento) le sorti del linguaggio per rendere il visibile veicolo di scoperta e stupore. Per alcuni si tratta verosimilmente di un ritorno al kantismo che vedrebbe nell'operazione artistica un tentativo di riesumare il sublime con l'intento comune di esprimere l'inesprimibile attraverso la materia, senza tuttavia riuscirvi. Sembra di fatto un paradosso, poiché la ricerca artistica muove dal tentativo di giustificare l'anelito all'infinito, ma che, in ultima istanza, si concretizza nella continua ricerca di nuove forme e tecniche diverse (Lyotard).

In effetti la "sensazione" ha preso corpo secondo i postulati dell'esistenzialismo. Attraverso il corpo e i suoi sensi l'arte contemporanea si rende protagonista di un contatto diretto con il mondo, si confonde con esso, mentre la percezione diventa aptica, invischiata con i fenomeni che ci circondano e che intenzionalmente ci appartengono. Si tratta di scoprire il "visuale", così come ce lo espone lo storico dell'arte Didi-Huberman, attraverso il non/sapere, ovvero allargando quei confini del senso oltre le dinamiche strutturali, del significante e del significato, che assegnerebbero a ciascun elemento della composizione il giusto posto all'interno di ristrette categorie.

Occorre scorgere il "sintomo" del visibile che affiora sulla superficie dell'opera. Tale sintomo non è affatto quantificabile o riconoscibile strutturalmente ma si insinua nelle crepe del colore, piuttosto che nella materia viva dell'impasto cromatico o del segno, deciso o slabbrato, curvo o spezzato. Anche nelle opere figurative, numerose all'interno di questo annuario, la reazione all'indeterminato sfocia in immagini/figure dissolte o vagamente accennate. Sembrerebbe che a consolidare l'efficacia di un'opera sia necessaria una forma di espressione che non tenga conto della logica, o meglio che preceda la logica della composizione per mostrare un "effetto di superficie" la cui resa appaia imprevedibile e foriera di nuovi linguaggi. Siamo forse ritornati a concepire l'arte in una dimensione pre/oggettiva, ovvero capace di identificarsi in una dimensione per nulla riflessiva o distaccata, come già prefigurata dalla fenomenologia di Merleau-ponty? Sembrerebbe di sì considerando che in questo contesto senso e non senso si rincorrono vicendevolmente dando vita ad immagini che spiazzano, ci inducono a riflettere sulle possibilità che l'arte ha di parlare non solo di sé stessa ma anche del "mondo" che ci circonda. Detto altrimenti possiamo considerare l'arte contemporanea come un'esigenza, per ritornare a Didi-Huberman, del visuale, un'esigenza che comporta un'apertura ottenuta da un rapporto con l'arte assolutamente sperimentale e non prevedibile.

I caratteri dell'indeterminato, presenti in molte delle opere visibili in questa edizione, fanno capolino su una tematica molto comune al giorno d'oggi e che si focalizza nei cosiddetti visual studies. In questo contesto l'indeterminato va inteso come la capacità di un'immagine (quadro, fotografia o video) di costituirsi come forma di interrogazione verso il fruitore e non viceversa. In tal senso l'autonomia dell'immagine imporrebbe a colui che la guarda di considerarla intraducibile dal punto di vista del linguaggio (scritto o parlato) e di osservarla in maniera diversa rispetto alla comune lettura; mi riferisco all'aspetto desiderante o a quello del potere comunicativo insito in ogni visione, tanto per fare qualche esempio.

In altre parole l'opera d'arte esercita sull'osservatore un tale stato di indeterminatezza da sospendere ogni forma di giudizio che la renda catalogabile. Con questo non si vuole certo

perseguire quella che è una "via analitica" dell'arte, ovvero dell'arte per l'arte, ma ribadire come l'interpretazione/contenuto di un'opera scorra parallela con la sua manifestazione materico/ visiva, e come spesso quest'ultima possa condizionare le ragioni di vita dell'opera stessa.

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