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Rosita Taurone

Rosita Taurone (1987, Salerno) è un’artista visiva multidisciplinare il cui lavoro attraversa una vasta gamma di media, tra cui la pittura, la fotografia e l'installazione. La sua ricerca, procedendo attraverso l’osservazione di forme organiche e la messa in atto di pratiche estetiche vegetali, sviluppa una riflessione approfondita sui fenomeni vitali di visibilità legati all’immagine e al suo processo di apparizione con delle preoccupazioni ecologiche e ambientali.
Taurone, indaga la rappresentazione della vita nella moltitudine delle sue manifestazioni fisiche e mutevoli, e adopera le immagini come punto di partenza per esplorare le trasformazioni del paesaggio con l'intento di comprendere meglio il nostro rapporto vivente con la natura.
Attualmente, svolge la sua ricerca nella Piana del Sele, dove è situato anche il suo studio d’artista, collocato in una ex casa colonica, un tempo abitata da mezzadri.
Nei suoi più recenti lavori, ha esplorato i processi della fotografia di origine vegetale: l’antotipia (dal greco anthos che significa fiore), una tecnica che combinando fotografia, fotosintesi e clorofilla consente un processo di stampa ecologico, pervenendo, così, ad elaborare dei corpi d’opera effimeri.
Dopo aver completato con lode i suoi studi in Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli nel 2010, Taurone ha proseguito il suo percorso di formazione studiando a l'École Supérieure des Beaux-arts de Nîmes in Francia, conseguendo un diploma di laurea in Espressioni Plastiche (DNSEP), e successivamente un master in Estetica e Culture Visuali presso la facoltà di Filosofia all’Università Jean Moulin - Lyon 3.
Ha partecipato a residenze artistiche finalizzate alla riqualificazione urbana e alla rivalutazione del contesto sociale ed economico dei piccoli paesi in via di spopolamento situati nel Cilento, come Fòcare e Transluoghi. Taurone ha esposto in Italia, Francia e Spagna.

Dimora e vetrina, involucro di luce che accoglie e che esclude, la serra disciplina il paesaggio di antica acqua della piana del Sele. Ne asseconda il ritmo orizzontale, accordandosi alla geometria ancora giovane delle strade poderali, i cui nomi in burocratica sequenza tradiscono una pianificazione di moderna ambizione. È moderna è la serra, figlia minore di quelle cattedrali di vetro e ferro che nell’Ottocento celebravano le “magnifiche sorti e progressive” di una civiltà emancipata finalmente dalla natura e dalle sue leggi. Un’illusione, questa, un imperdonabile peccato di hubris che, nonostante tutto, ancora si perpetua tra le pareti mai del tutto trasparenti delle serre. Recinti che dovrebbero essere tiepidi vivai, rispettosi incubatori del vivente, le serre spesso sono ridotte a fabbriche di merci vegetali, capannoni per la produzione di alimenti costruiti per il mercato e i suoi distruttivi capricci. È a partire da questa contraddizione, dalla tensione tra la protezione del vivente e il suo tossico consumo, che Rosita Taurone ha individuato nella serra il dispositivo fisico e simbolico di una paziente ricerca d’artista che qui si esprime in materie che cambiano.

Sensibile alla metamorfosi, all’incessante mutamento che rigenera in forme sempre nuove ogni elemento - pietra, foglia, osso, lacrima - l’artista ha così condotto a partire dal 2018 un lavoro di indagine, di scrupolosa interrogazione sul paesaggio e sulle dinamiche della piana del Sele, un ambiente a lei familiare che guardato attraverso la serra si è rivelato nelle sue segrete meraviglie e nelle sue profonde sofferenze. Nell’assolato essiccatoio di quello che è stato il tabacchificio di Cafasso, uno spazio monumentale che oggi sperimenta nuove produzioni, è qui esposto un primo, vivente archivio di questa ricerca, non una mostra di oggetti o una sfilata di belle immagini ma la condivisione di un pensiero e di una visione che si manifesta attraverso media differenti e comunque impuri. Così, la fotografia conosce qui la transitorietà organica dell’antotipia, una desueta tecnica di stampa con cui l’artista usando la fotosensibilità delle piante (anthos è in greco fiore) ha ottenuto epifanie effimere dagli scarti vegetali, resi prestigiosi dalla luce: filamenti di finocchio, foglie d’insalata, frammenti e resti di astratta musicalità. La pittura è invece digitale e la natura non è affatto morta ma viva e vegeta, mentre la performance, inesorabile arte del qui ed ora affidata al corpo intelligente di DISCOllettivo, si dilata nel tempo circolare della registrazione e si condensa nella dimensione angusta degli schermi, nascosti più che mostrati.

Ad annodare i fili diversi di questa esposizione è un pensiero della mescolanza, una “metafisica” che appartiene al mondo vegetale e che l’uomo tenta invano di inibire: a cos’altro servono i sudari di plastica stesi sui campi se non ad impedire che i semi si mescolino e le piante si confondano? La terra però non è uno zoo, un orto botanico, una serra impermeabile, è “un giardino planetario” disponibile a sempre nuovi equilibri (“Le piante invasive di oggi sono la flora nativa del futuro”) e noi umani, dovremo prima o poi farcene una ragione, “non siamo i soli a interpretare il mondo”. Guardare “con sguardo che ignora il risaputo” attraverso la serra, come fa Rosita Taurone, muoversi tra il dentro e il fuori, osare spazi intermedi e precari facendone opera e problema, significa rinunciare al controllo della natura per mettersi in ascolto. Riconoscendo, finalmente, che “il respiro delle piante è il respiro di tutti i viventi”.





PELLICOLA
Performance dance dal progetto "L'insalata ha un colore", fotografia digitale, cm 40 x 53, 2022
Testo di Stefania Zuliani

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