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Gabriella Benedini

L’arte di Gabriella Benedini, nata a Cremona nel 1932 ma protagonista della vita culturale milanese fin dall’inizio degli anni Sessanta, è intessuta di memorie e suggestioni. Difficile classificarla, e anche soltanto ascrivere le sue opere a una categoria: pittura, scultura, installazione... Si tratta di definizioni che, nel suo caso, non colgono nel segno, e che comunque risultano insufficienti e impari di fronte alla libertà di un creare zampillante e sempre nuovo, seppur riconoscibile nella coerenza di fondo che lo caratterizza.

I temi del viaggio (fisico e spirituale), dell’interrogazione delle stelle, della trasmutazione della materia e degli elementi, della sete di conoscenza sono centrali nel lavoro di Gabriella Benedini. A rivelarlo è anche il titolo prescelto per la mostra, con quell’esoterica parola, athanor, che rimanda proprio al mondo dell’alchimia ed è ripresa da un racconto di Jorge Luis Borges, La rosa di Paracelso, che ha per protagonista l’imperscrutabile figura del medico-scienziato tedesco del Cinquecento.

Quella realizzata alle Gallerie d’Italia nella Sala delle Colonne non è certo una retrospettiva, ma, al contrario, un’esposizione che, pensata unitariamente, segna un ulteriore sviluppo nella personale ricerca di Gabriella Benedini. Protagonista, accanto alle spettacolari opere a suo tempo donate dall’artista, è la Biblioteca, un corpo compatto, ermetico, color Gris de Payne, che si manifesta nella propria enigmatica e incombente presenza. Sugli scaffali sono ordinatamente posizionati oltre trecentocinquanta “libri” (in realtà indecifrabili contenitori), all’esterno tutti uguali. Non contenitori qualsiasi, come ovvio, ma speciali, delle medesime dimensioni: due coperchi che, aprendosi, schiudono mondi inimmaginabili, sorprendenti, ma che restano celati all’osservatore. Uno solo, spalancato, è posizionato su un leggìo.

Oltre alla Biblioteca, sono esposte le ormai celebri Arpe di Gabriella Benedini (fra cui tre della collezione di Intesa Sanpaolo), sculture polimateriche che, come scrisse Gillo Dorfles nel 1992, «colmano d’una loro “sonorità spaziale”» l’ambiente nel quale sono collocate, ispirando la sensazione di «note – arcane, impercettibili, inafferrabili da orecchie umane».

E, ancora, opere bidimensionali, grandi tavole aggettanti giocate rispettivamente sui toni del blu e del grigio, che richiamano le costellazioni e un ulteriore motivo caro all’artista, ossia quello della musica. Tutto ciò, nel suo complesso, costituisce un organismo espositivo sfaccettato ma innervato da uno afflato poetico e sottilmente misterioso, che rivela ai visitatori un tempo che diviene dimensione visibile dello spazio.





ATHANOR
Polimaterico su tavole, cm 90 x 176, 2022
Testo di Paolo Bolpagni

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